Curriculum

 

Curriculum - Testi critici


 

Le sculture di Cristiano Brandolini, tormento ed estasi tra forma e materia


Elena Percivaldi. Testo di presentazione della mostra personale “SA-MANU estasi dell'informale” presso MILESIlab, Monza 2010.


“Il mio modo di fare arte… La mia arte sostanzialmente è informale. Nelle mie opere l’elemento dominante è il dinamismo. Dentro c’è materia e movimento”. I debiti di Cristiano Brandolini, classe 1972, nei confronti della grande scultura italiana del Novecento sono grandi e dichiarati. Francesco Somaini, Giancarlo Sangregorio, Emilio Scanavino, Ferdinando Moneta, tutti artisti che - salvo Scanavino per ovvie ragioni anagrafiche (morì nel 1986) - ha ben conosciuto e frequentato sin dai tempi in cui studiava all'Accademia delle Belle Arti di Brera.    

Come nascano i suoi lavori lo chiarisce egli stesso: “Durante la giornata può capitare di avere un momento di ispirazione. Allora prendo carta e china e butto giù tutto quello che mi sento in quel momento. Poi quei disegni rimangono lì… Quando mi sento di fare una scultura, non vado mai a riprendere questi studi per riprodurli tali e quali. Il seme è stato gettato, le idee sono state fissate sulla carta, ma queste stesse idee poi spontaneamente sgorgano di nuovo nel momento in cui lavoro alla scultura”. Un approccio che è di segno quasi del tutto opposto a quello, appunto, di Somaini, che invece nel suo diario bianco scriveva: “Raramente un motivo, un’idea è sorta in me d’improvviso, occasionalmente. Di norma ad uno stato di disagio, di inquietudine, per essere più sincero d’ira, è seguito un periodo fertilissimo in cui a gruppi le idee si sono affollate con tale rapidità che il disegno, il graffito erano l’unico mezzo di fermarle senza perderne troppe per la via”.

Brandolini ama restituire la vita agli oggetti che scolpisce. Il magma che informa è il più vario ed eventuale possibile: pezzi di legno o di ferro, pietre, scarti di lavorazione, meglio se trovati casualmente da qualche parte. Se la predilezione per il ferro nasce dalla professione del padre fabbro, quella per il legno e la pietra è per il giovane artista sepriese una predisposizione innata e una professione “altra”: la sua attività di archeologo lo ha infatti spinto ad approfondire il legame delle civiltà del passato con i materiali naturali, assimilando degli antichi artigiani anche l'approccio quasi “sacrale” alla materia stessa. Egli dunque ne esamina attentamente la forma e la soppesa. Ed ecco, pian piano, nascere l'idea di una forma finita, di un'opera compiuta. Anziché per sottrazione, l'artista lavora per aggiunte progressive, assemblando via via nuovi materiali. E il work in progress che ne consegue avviene di getto, ha un non so che di rapsodico. Anzi, di sciamanico. Mentre immagina, egli crea.  

Lo vediamo bene nella scultura (e relativo studio) del 1997 intitolata “Grande martirio”, presente in mostra. Il riferimento, ovvio, è al “Grande martirio piagato” di Somaini (1960) e alla sua croce alata. Là però la vittima da immolare mancava, la croce-altare era vacante. Nell'opera di Brandolini è fisica e assume una drammatica e teatrale presenza. La figura modellata nel ferro – che sembra citare lo studio per una scultura del maestro comasco datata 1957 che ritorna peraltro ossessivamente anche altrove, come nell'opera “Nel vento II” – fa pensare a un Icaro che tenta di librarsi in volo ma resta invischiato nella materia calda del legno. E non riesce a decollare ma muore dibattendo le ali.  

Del resto, Icaro è un tema affrontato dall'artista sepriese in un'altra scultura qui esposta. La caduta dal cielo del figlio di Dedalo è colta nel momento dell'impatto col terreno. La figura è levigata e richiama quella di un gabbiano o di una rondine, ma le ali rivolte verso il cielo, lievemente aperte in forma di croce, denunciano la sofferenza di un destino segnato dall'impossibilità della ribellione alle leggi di natura.  

L’assemblaggio di materiali diversi nella stessa opera, accostando il ferro al legno, alla terracotta, alla pietra è tipico anche di un altro grande scultore, il milanese Giancarlo Sangregorio, da cui il giovane sepriese sembra assumere il valore intrinseco della creazione dell'opera d'arte, il tentativo cioè di andare “oltre” la materia: spaccare la pietra per andare “oltre” la pietra, così come bruciare il legno – ed è lo stesso Sangregorio a dircelo – è un gesto animista che restituisce al legno stesso la sua vita segreta e più autentica. L’artista si fa dunque medium del processo di trasformazione della materia ma, come un artigiano antico, non lo determina.

La materia informe accostata, per contrasto, a elementi puliti e geometrici si unisce in altri lavori alla gestualità e al dinamismo vitalistico della forma tipico di Scanavino. Dal quale Brandolini eredita soprattutto l'ossessione per i nodi, enigma da sciogliere o mistero senza inizio né fine, simbolo la cui tradizione, per restare in Occidente, si declina dalle antichissime pietre tombali nordiche agli intrecci di Salomone, dai nodi celtici e “barbarici” onnipresenti nella scultura romanica a quelli di Leonardo e di Paul Klee.

Ma se nelle opere di Brandolini è ben presente il passato, con tutto il suo adeguato carico di perizia artigiana, potremmo definire “futurista” il suo utilizzo dell’acciaio inox come uno specchio, pulito e lineare, che si contrappone alla materia grigia del ferro. Futurista e calderiano. E non ci sbagliamo perché futurista sui generis e amante di Calder fu l'ultimo grande maestro del nostro artista, Ferdinando Moneta. Che, per sua stessa ammissione, partendo dalla materia non intende liberarne le forme ma farle catturare dallo spazio, “ridisegnandole con le sue bande che sono colore nei quadri e nastri d'acciaio, sonori e riflettenti, nelle strutture scultoree”.

Parlavamo all'inizio dei debiti, riconosciuti da Brandolini, nei confronti della grande scultura del Novecento. Sono certo molti. Ma questi debiti diventano crediti perché, dopo aver compiutamente assimilato dai suoi maestri il linguaggio e lo stile, l'artista sepriense riesce a trasformarlo, come Efesto, in qualcosa di nuovo, di vivo e di pulsante. Con qualche decisiva inquietudine.





Brandolini e Rinaldi Misteriosa-mente in luce


Massimo Bardelli. Tratto da: Misteriosa-mente in luce, Comune di Somma Lombardo Edizioni, Somma Lombardo (Va) 2004.


Cristiano Brandolini è uno scultore giocoso.

Come un bambino, coglie nelle parole di Silvia Rinaldi le sfumature per renderne volume nella loro opera, diventando palpabile e impalpabile in un mondo esclusivo ricco di tracce, slanci e sospensioni.

Come se tutto fosse parte di una meditazione silenziosa nella quale Cristiano e Silvia ci hanno concesso di entrare.





FIGURE FENIMINILI NELL'OPERA DI CRISTIANO BRANDOLINI: Tra citazioni storiche, suggestioni cibernetiche ed estetiche post-moderne


Virgilio Patarini. Tratto da: Le Donne, i Cavallier, l'Arme, gli Amori... Viaggio di artisti contemporanei nell'immaginario medievale, Apollo e Dioniso Edizioni, Rozzano (Mi) 1999.


Guardando una scultura di Cristiano Brandolini, ciò che subito ci si para dinanzi è il prodotto di una metamorfosi: le fibre muscolari e i tessuti nervosi dei corpi sono portati alla luce e trasformati in un sistema di placche e listarelle saldate, inchiodate, imbullonate tra loro.

Le figure femminili si mutano così in una sorta di esseri cibernetici, che potrebbe veramente far pensare a una qualche creatura umanoide balzata fuori da un film alla Blade Runner. L'intera superficie del modellato appare come una articolata teoria di placchette metalliche. Come se si trattasse del corpetto di un'antica armatura assemblata, saldatura per saldatura, delle mani esperte e pazienti di un artigiano d'altri tempi.

Ecco. È come se la tavola anatomica a cui prima si alludeva (muscoli, nervi, tessuti) fosse rivisitata, ricostruita, reinventata da un fabbro medioevale, avvezzo più a forgiare armature che a costruire manichini umani per i corsi di anatomia. E tuttavia un'accurata conoscenza dell'anatomia (e delle proporzioni) è ciò che sta alla base e sorregge, come struttura ideale, I'intero processo di scomposizione e ricomposizione a cui Cristiano Brandolini sottopone le sue figure di donna. Figure che affiorano faticosamente da una ridda di travi, di schegge di metallo... E' come se noi, fruitori dell'opera d'arte, avessimo Iibero accesso alla bottega del fabbro di cui prima si diceva, e potessimo vedere l'opera prima ancora che sia del tutto compiuta, rifinita, liberata dalle scorie della lavorazione che ancora la circondano ed in parte la imprigionano. Le morbide forme della figura umana e l'informe spigolosità della materia di cui si compone non sono giunte ancora ad un equilibrio, ad un rapporto stabile, definitivo.  

La Forma non ha ancora preso il sopravvento, non ha conquistato l’intero territorio della Materia. La Materia non è doma: esplode selvaggia, come impazzita, in forma di schegge di metallica follia, dilaga in gran parte dell'opera, in eclatante contraddizione con la plastica, rassicurante razionalità delle forme femminili raffigurate. Di qui il senso d'insanabile tensione che sprigionano opere come quelle di queste pagine. Un'analoga tensione è poi rinvenibile anche sul piano estetico. oltre che su quello formale. frutto di una profonda, stridente contraddizione esistente fra i differenti orizzonti culturali a cui Brandolini fa simultaneamente riferimento in lavori come Qui ti amo. In questa opera del 1995, infatti, lo scultore contamina una evidente citazione tratta dal Canova, campione indiscusso del classicismo di fine Settecento (la celebre scultura che ritrae Paolina Bonaparte in veste di Venere distesa), con un trattamento della materia d'ispirazione decisamente Informale. Si tratta, evidentemente, di un approccio intellettuale spiccatamente post-moderno, che non esita ad affondare le mani nel repertorio iconografico di un ideale museo della Storia dell'Arte.